Dal 15 maggio e fino al 25 agosto 2024 ai Musei Capitolini a Palazzo Caffarelli

di Patrizia Cantatore

Aperta l’esposizione a Palazzo Caffarelli ai Musei Capitolini, che celebra la coppia di Maestri del Quattrocento:  Filippo e Filippino Lippi, un racconto sul talento del padre, artista importante della stagione fiorentina di Cosimo de’ Medici e quello di suo figlio, erede dell’ingegno e interprete del gusto nella Roma della fine del Quattrocento.

La mostra “Filippo e Filippino Lippi. Ingegno e bizzarrie nell’arte del Rinascimento” è promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e organizzata da Associazione MetaMorfosi, in collaborazione con Zètema Progetto Cultura.

Curatrice della mostra Claudia La Malfa,  che illustra attraverso una selezione di dipinti, disegni e documenti d’archivio, il talento del pittore fiorentino Fra’ Filippo Lippi (Firenze 1406-Spoleto 1469) e quello di suo figlio Filippino (Prato 1457-Firenze 1504).

Si potranno ammirare alcuni di quei capolavori di fra’ Filippo Lippi su tavola, la magnifica Madonna Trivulzio del Castello Sforzesco di Milano, manifesto della pittura del Lippi della quarta decade del Quattrocento. Qui l’esperienza che era stata di Masaccio è ancora dominante, anche senza una valenza di profondità. Lippi, non sente la gravità morale, comprende però di dover trasformare l’idealizzazione gotica in una naturalità che concepisca la visione prospettiva del primo piano come una concreta superficie luminosa mediatrice tra piano empirico e piano figurativo che faccia emergere le parti essenziali delle forme lasciando filtrare la luce naturale, di fatto mettendo in relazione visione e veduta. Lippi si interroga sul problema della rappresentazione del movimento fisico del corpo umano come principio di animazione dello spazio luminoso. I volti delle sue figure sono larghi, leggermente appiattiti, con una luce diffusa che sembra traboccare dai contorni e da lì propagarsi verso l’ambiente.

Nella Madonna con angeli della Collezione Cini di Venezia, anch’essa in mostra, è invece evidente un nuovo linguaggio intimo coniato dall’artista per la devozione privata. Della produzione pittorica di Lippi padre anche due piccole tavole della Galleria degli Uffizi, raramente esposte al pubblico, raffiguranti l’Annunciazione della Vergine e i Santi Antonio Abate e Giovanni Battista insieme a due tavole di grandi dimensioni raffiguranti Santi Agostino e Sant’Ambrogio, Gregorio e Girolamo della Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Torino, che originariamente formavano i laterali di un trittico la cui parte centrale è oggi conservata al Metropolitan Museum di New York.

Assieme ai dipinti di Fra’ Filippo Lippi, un nucleo di documenti provenienti dagli archivi di Firenze e di Spoleto dai quali emerge la rete di contatti del pittore con Cosimo de’ Medici e con il re di Napoli, oltre a far emergere un carattere dell’artista: la sua bramosia verso il sesso femminile. Anche il Vasari nelle “Vite” racconta un episodio boccaccesco di cui fu protagonista. Pare infatti che Cosimo il “Vecchio” de’ Medici gli commissionò un lavoro nel suo palazzo di via Larga, sapendo del suo debole per le donne e,  la svogliatezza nel portare a termine i lavori, lo rinchiuse in una stanza affinché non perdesse tempo andandosene a zonzo. Dopo due giorni passati in clausura e astinenza, ridusse a strisce un lenzuolo con cui si calò da una finestra fuggendo. Farà ritorno solo dopo molti giorni. Nella documentazione riportati anche i particolari della rocambolesca storia d’amore tra il pittore e la giovane monaca Lucrezia Buti.

Sarà proprio per toglierlo dai guai che la famiglia Medici sotto la cui protezione si trovata, che nell’anno 1452 fu inviato a lavorare a Prato. Il Comune gli commissionò gli affreschi della Cappella Maggiore di Santo Stefano e una vetrata nella Cattedrale per una somma di 1200 fiorini. Gli affreschi furono completati molti anni dopo, con molte interruzioni, richieste di denaro, solleciti e rinegoziazione del contratto. Gli affreschi di Prato (1452-1464) rappresenteranno per Filippo lo sviluppo in libertà e pienezza della sua nuova concezione del rapporto tra movente interno (sentimento) e moto fisico, tra moto fisico e spazio-luce.

Inoltre il passaggio a Prato e la sua fama determineranno anche la sua  nomina a cappellano del Monastero agostiniano di Santa Margherita di Prato nell’anno 1456 dove Lucrezia Buti era monaca, rinchiusa in quel convento con la sorella Spinetta, contro la loro volontà, dai genitori che non potevano dar loro una dote pur essendo famiglia rispettabile. Una pratica che dall’undicesimo secolo era diventata una prassi per la nobiltà e la borghesia mercantile, perché monacare le figlie era meno costoso che farle sposare.  

Galeotto fu l’incarico al pittore di dipingere una tavola per l’altare del Convento (la Madonna della Cintola oggi conservata nel Museo Civico di Prato), il quale chiese di poter ritrarre nella figura di Santa Margherita, la bellissima Lucrezia intravista in convento, vincendo le titubanze della reverenda Madre Badessa. L’amore e la passione furono travolgenti, nonostante il pittore fosse più vecchio di trent’anni. L’amore maturò benché vissuto in clandestinità, concretizzandosi con una fuga; l’occasione si presentò durante la processione per l’Ostensione della Sacra Cintola della Madonna al popolo per l’adorazione (si trattava di una striscia di stoffa verde “broccata” d’oro). Lucrezia si dileguò tra la folla  e si avviò verso l’abitazione del suo amato Filippo, dove furono raggiunti dalla di lei sorella, Spinetta e, da altre tre monache stanche della austera vita del convento. Lo scandalo fu enorme, Lucrezia partorì un bambino, a cui venne dato il nome del padre Filippo. Le monache torneranno in convento per poi riabbandonarlo definitivamente di lì a poco. Sarà Cosimo il “Vecchio” legato da sincera amicizia con Filippo, a chiedere a Papa Pio II di sciogliere i loro voti e ridurli allo stato laicale. La dispensa fu concessa senza problemi, anche per far dimenticare lo scandalo e i due amanti vissero felicemente senza mai sposarsi, oltre a Filippino, ebbero anche una figlia femmina alla quale diedero il nome di Alessandra.

Nel percorso espositivo una selezione di importanti disegni, concessi in prestito dalla Galleria degli Uffizi e dall’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, evidenziano il debito del figlio Filippino Lippi oltre che verso il padre, nella cui bottega si forma, anche con Sandro Botticelli allievo di Filippo nella cui bottega fiorentina entrerà dopo la morte di Filippo nel 1469.

Filippino Lippi sarà il vero erede legittimo dell’empirismo paterno, filtrato dall’esperienza del maestro Botticelli a cui era tanto cara l’idea del libero arbitrio divino, grazia che salva l’uomo dalla disperazione che in Filippino viene intesa in un arbitrio positivo-creativo che nella mente umana è rappresentato dalla fantasia, che discende dal divino ma, un’attività produttiva; l’arte è il mezzo fattivo della fantasia che viene trasformata in opera. Partendo dal reale, attraverso immagini, associazioni e combinazioni trasforma l’energia vitale che andrebbe dispersa, in qualcosa di proficuo.

In mostra il capolavoro di Filippino Lippi: l’Annunciazione dei Musei Civici di San Gimignano. Nell’opera, realizzata in due separati tondi su tavola, Filippino conia le geometrie prospettiche e l’intima narrazione degli interni del padre con quel respiro ampio delle figure sinuose del maestro Botticelli,  una nuova concezione del contrappunto pittorico tra una nuova profondità prospettico-paesaggistica e un primo piano caratterizzato da preziosi colorismi e trasparenze che determineranno la fortuna di Filippino nella grande produzione pittorica delle ultime decadi del Quattrocento sia a Firenze che a Roma.

Un disegno di Filippino Lippi proveniente dall’Accademia di Venezia illustra l’ingegnosa invenzione realizzata nell’impresa ad affresco per la chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma nella cappella del cardinale napoletano Oliviero Carafa. La parete della cappella dove sono raffigurate l’Annunciazione alla Vergine e l’Assunzione della Vergine è infatti caratterizzata da singolari e bizzarre immagini architettoniche concatenate le une nelle altre in un complesso e ingegnoso meccanismo che si svelerà proprio grazie al disegno prestato dall’Accademia di Venezia.

La Cappella Carafa è l’apice della produzione pittorica di Filippino Lippi, rappresentando un condensato di citazioni dall’antico: dalle grottesche, alla statua equestre del Marco Aurelio che all’epoca si trovava ancora a San Giovanni; il grande fregio antico che si trovava a San Giovanni, dalla statua del re barbaro prigioniero, che oggi si trova nel cortile dei Capitolini, alla piccola statua di putto che gioca con oca; rivelando quanto il fascino delle bellezze di Roma influirono sulla produzione artistica dei maestri del Rinascimento.