un film di Babak Jalali, Cast: Anaita Wali Zada, Gregg Turkington, Jeremy Allen White

di Patrizia Cantatore

Fremont, città della Baia di San Francisco, è chiamata anche Little Kabul, ospita infatti, una delle più grandi comunità di afghani negli Stati Uniti, immigrati all’indomani dell’abbandono del fronte afgano da parte dell’esercito statunitense, per sfuggire ai talebani e in cerca di libertà in una nuova comunità. Protagonista di questa storia è Donyaa (Anaita Wali Zada) che ha svolto il lavoro di interprete per l’esercito americano, orfana, impossibilitata a restare nel suo paese, è in cerca di una connessione sociale e di amore.

Il regista britannico-iraniano Babak Jalali (Frontier Blues, Land) gira questo lungometraggio in un raffinato bianco e nero, riuscendo a farci entrare nella dimensione esistenziale della ragazza in difficoltà rispetto all’adattamento nel nuovo ambiente. Donyaa lavora in una fabbrica cinese di dolcetti della fortuna ma, nonostante il suo desiderio e pochi goffi sforzi, non riesce a crearsi delle amicizie che possano strapparla alla solitudine, né riesce a familiarizzare con gli uomini del suo paese o quelli del luogo dove si è trasferita.

Nella comunità di afgani, i problemi non mancano, la ragazza evita i suoi connazionali  che non hanno veramente accettato il cambiamento e vivono ricordando i momenti critici vissuti come incubi e colpevolizzandosi per aver lasciato il proprio paese. Donyaa invece, ha scelto di aiutare gli stranieri proprio per poter avere la possibilità di andarsene dal suo paese, questo dichiara allo psichiatra con cui va a parlare presentandosi all’appuntamento disertato da un suo vicino di casa. Il suo desiderio è integrarsi nella realtà a tutti i costi,  il regista Babak Jalali affronta con una leggerezza contemplativa la realtà alienante e insieme alla co-sceneggiatrice Carolina Cavalli (la regista di Amanda, del quale Jalali ha curato il montaggio), sottolinea come le dinamiche rigide della burocrazia e il capitalismo spietato si trasformino in strumenti che paralizzano, impedendo gli scambi sociali non solo tra gli immigrati estranei a quella realtà ma di tutti gli abitanti. Eppure la solitudine e l’emarginazione possono essere superate mettendo in campo l’empatia profonda con l’altro, aprendosi alla comprensione e alla fiducia che significa anche mettersi in gioco, creare vicinanza e comprensione, perché la vita è un breve tempo nel tempo universale e bisogna saper cogliere le occasioni che la vita mette sulla nostra strada, per dirla come avrebbe detto Quasimodo: “Ognuno sta sul cuor della terra,/ trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera..”